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Differente non è difettoso. Intervista a Fabrizio Acanfora, neurodivergent Advocate

  • Scritto venerdì 2 luglio 2021
  • Tempo stimato di lettura 7 minuti
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Fabrizio Acanfora, neurodivergent Advocate, divulgatore scientifico, scrittore e conferenziere, docente universitario, pianista e clavicembalista, ex costruttore di clavicembali senza rimpianti. 

Fabrizio coordina il Master in Musicoterapia dell’Università di Barcellona, dove insegna anche Disturbi dello Spettro Autistico. Fa parte del comitato scientifico del Master in Tutor Accademico Specializzato in Didattica Musicale Inclusiva dell’Università LUMSA. Appassionato di ricerca scientifica, ha sviluppato fin dall’adolescenza un interesse assorbente per le neuroscienze. Ha vinto il Premio Nazionale di Divulgazione Scientifica Giancarlo Dosi nel 2019 con il suo saggio autobiografico sull’autismo “Eccentrico”. 

Abbiamo conosciuto Fabrizio nell’ambito del progetto che portiamo avanti da mesi con Specialisterne, la società che aiuta aziende di tutto il mondo e di ogni settore a valorizzare il bacino di talenti con autismo e Asperger. L’iniziativa ha previsto un doppio percorso di formazione in Avanade. Da una parte, attraverso webinar e workshop interni abbiamo preparato le nostre persone sui temi della neurodiversità e neuroinclusione. Dall’altra, abbiamo formato sei talenti neurodivergenti da inserire nei nostri team di lavoro. 

Fabrizio si interessa di inclusione delle diversità - o come preferisce dire di “convivenza delle differenze” – dal punto d vista culturale e sociale, anche e soprattutto in ambito lavorativo e aziendale, promuovendo un approccio alle differenze che si allontani dalla visione che stigmatizza la diversità come condizione di inferiorità, deficitaria e migliorabile. 

 

 


Neurodiversità e neurotipicità: cosa intendiamo con questi due termini?  

Quella di neurodiversità è una definizione coniata alla fine degli anni ‘90 dalla sociologa e attivista autistica Judy Singer e indica la naturale variabilità esistente nell’assetto neurologico degli esseri umani, la biodiversità neurologica che ci contraddistingue come specie. Secondo questa definizione, siamo tutte e tutti neurodiversi. 

Nell’infinita variabilità tra un cervello e l’altro, però, possiamo incontrare alcune similitudini che ci permettono di suddividere le persone in due categorie: quelle neurotipiche, che seguono cioè uno sviluppo neurologico definito “tipico” (la maggioranza), e quelle neuroatipiche o neurodivergenti che invece hanno uno sviluppo definito “atipico”. In questa seconda categoria si fanno rientrare le persone autistiche, ADHD, dislessiche, discalculiche, tourettiche ecc. 

La definizione di neurodiversità è fondamentale per spostare il discorso sull’autismo e le altre condizioni del neurosviluppo da un ambito prettamente medico-riabilitativo, che le vede come caratterizzate da deficit, verso un’ottica incentrata sul riconoscimento della dignità di tutte le differenti espressioni della neurologia umana. Questo fa sì che possiamo individuare non più presunti deficit e difetti, ma differenti modalità di funzionamento, ciascuna con le sue caratteristiche tanto positive quanto negative. Questo cambio di punto di vista evidenzia tra l’altro anche il ruolo della società nella creazione e nel mantenimento di una serie di ostacoli e barriere che impediscono di fatto l’accesso delle persone neurodivergenti a servizi, possibilità e occasioni anche in ambito lavorativo. 

 

 


Nel tuo saggio "Eccentrico. Autismo e Asperger in un saggio autobiografico" scopriamo che la diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico è arrivata solo in età adulata, a 39 anni. Com’è cambiata la tua vita da quel momento? La tua storia personale ha inciso sulla decisione di fare informazione sul tema?

La diagnosi ha significato per me un momento di liberazione e presa di coscienza estremamente importante. Fino a quel momento tutta una serie di caratteristiche che mi hanno accompagnato fin dall’infanzia erano state etichettate in vario modo e venivano attribuite al mio carattere o alla mia volontà. Ad esempio, venivo etichettato come pigro o svogliato perché, invece di studiare le materie obbligatorie a scuola, dedicavo tutto il mio tempo solo a quelle che mi interessavano o trascorrevo le giornate coi miei “interessi speciali” come la musica o le neuroscienze. Oppure ero l’asociale, quello con dei modi bruschi, la persona priva di senso dell’umorismo o il ragazzino estremamente rigido che non accettava i cambiamenti. 

Dalla diagnosi queste caratteristiche hanno trovato una spiegazione in quella che è una differente neurologia, un modo differente di percepire ed elaborare il mondo e, di conseguenza, anche di relazionarsi a esso. E così ho scoperto che non ero pigro o svogliato, ma che anzi in determinate condizioni (come quando mi immergo nei miei argomenti o in qualcosa che mi interessa) posseggo una straordinaria capacità di concentrazione e attenzione ai dettagli. E nemmeno ero asociale, ma la mia socialità si basa su codici e canoni differenti rispetto alla maggioranza, o che sono il risultato di caratteristiche come una spiccata sensorialità, che mi rende difficile, ad esempio, frequentare luoghi rumorosi o troppo illuminati. 

Poter finalmente comprendere il perché di tante difficoltà, ma anche di tante qualità di cui sono sempre andato fiero, mi ha spinto a scriverne per cercare di aiutare altre persone nella mia condizione, e tra i libri pubblicati, il blog e le reti sociali, devo dire che lo scopo è stato in parte raggiunto.

 

 


Quali sono le principali difficoltà incontrate dalle persone autistiche che desiderano inserirsi nel mondo del lavoro? 

Le difficoltà possono essere molteplici come molteplici sono le differenze tra persone autistiche, ma a grandi linee esistono alcune aree in cui è possibile individuare caratteristiche comuni.  

Si può pensare ad esempio al fatto che in generale noi autistici abbiamo una sensorialità che può essere estremamente sensibile, per cui un ambiente lavorativo rumoroso o in cui l’illuminazione sia particolarmente brillante, possono causare difficoltà.  

Partendo un po’ più da lontano, potrei dire che già dal primo contatto con l’azienda spesso una persona neurodivergente può sperimentare difficoltà. Pensiamo alle offerte di lavoro sui siti o sulle reti sociali come Linkedin che spesso sono scritte in modo poco ordinato e senza riferimenti che aiutino la lettura a chi ha un differente stile cognitivo (ad esempio le persone dislessiche). Un altro grande ostacolo sono i colloqui che si svolgono secondo modalità comunicative e sociali neurotipiche e, peggio ancora, durante i quali vengono valutate una serie di presunte abilità (pensiamo alle famose soft skills) che non solo hanno poco a che fare col lavoro in questione, ma vengono valutate seguendo un metro di giudizio neurotipico, per cui la persona autistica risulta sempre in qualche modo difettosa. Basti pensare al contatto oculare che in molte persone autistiche è peculiare o assente: se durante un colloquio io fisso il pavimento perché guardare l’interlocutore negli occhi è per me impossibile, mi mette in agitazione e mi distrae, ovviamente verrò valutato negativamente. 

Anche una differente socialità può creare problemi. Ricordo ancora le birre del giovedì, quando in Olanda lavoravo per Capital One Bank. Per me erano momenti difficili da gestire per via del caos e, mentre tutti i colleghi si divertivano e si rilassavano, io tornavo a casa in uno stato di agitazione tremendo che si protraeva spesso per giorni. Ma anche nella quotidianità al lavoro una modalità di socializzazione e di comunicazione differenti possono creare problemi quando non comprese. Potrei dimenticare di salutare quando entro in un ufficio, oppure posso utilizzare un linguaggio e un approccio estremamente diretti che vengono spesso confusi con maleducazione o antipatia quando in realtà la mia intenzione è di andare al nocciolo di una questione, dimenticando quelle convenzioni sociali però importanti per le persone neurotipiche.

 

 


Qual è il reale valore aggiunto della diversity per le aziende e in che termini è cambiata la percezione della neurodiversità?  

Per un’azienda, ma direi per l’intera società, il valore della diversità sta nell’idea stessa che essa esprime. Nel mio ultimo libro, In Altre Parole, dizionario minimo di diversità, ho espresso il concetto di diversità come la condizione di default della natura. Anche nella natura umana la diversità è la norma, mentre quella che chiamiamo normalità è un costrutto sociale, una sotto-categoria della diversità. 

Se pensiamo alla diversità non più in termini comparativi (come diverso dal normale, quindi anormale), ma la intendiamo come la naturale variabilità espressa dalla natura umana, allora ci accorgiamo che il suo valore è enorme. 

In azienda, accogliere la diversità in ogni sua forma, che si tratti di diversità neurologica, di genere, culturale, di orientamento sessuale, ecc. diventa un arricchimento non solo per le persone che appartengono alle cosiddette categorie minoritarie, ma per tutta l’organizzazione. 

Io faccio spesso l’esempio degli accorgimenti che ho richiesto all’avvio della mia collaborazione con l’università di Barcellona. Inizialmente, le mie richieste di ridurre le riunioni in presenza, o di utilizzare turni di parola chiari durante le riunioni, di incontrarci in luoghi meno rumorosi o di scambiarci e-mail in modo chiaro e strutturato senza troppi convenevoli, sono state prese un po’ con scetticismo e da alcuni addirittura con fastidio. Ma col tempo, anche i colleghi e le colleghe neurotipiche hanno scoperto che certe cose rendevano più facile l’interazione e più fluida e precisa la comunicazione. 

Fondamentalmente, quando una persona riesce a lavorare in un ambiente in cui si trova a proprio agio e vede le proprie caratteristiche rispettate e comprese, produce di più, è più felice e lavora meglio, riesce a esprimere le proprie qualità, i propri talenti e questo va a vantaggio di tutti. 

Per rispondere alla seconda parte della domanda, concetti come quello di neurodiversità e neurodivergenza sono piuttosto nuovi, ma come dicevo stanno aiutando a spostare la visione di condizioni come l’autismo da una concezione basata sui deficit a una che si centri sulle differenze, e le differenze possono diventare possibilità, non necessariamente ostacoli. Credo che sia un bel passo avanti. 

 

 


Ci sono accorgimenti che le organizzazioni possono adottare per includere le neurodivergenze al proprio interno?  

Come dicevo prima, esistono alcune caratteristiche condivise da buona parte delle persone neurodivergenti, ma l’elemento che ci accomuna tutte è la variabilità, la diversità proprio come accade per le persone neurotipiche. 

Sicuramente alcuni accorgimenti come degli spazi non troppo stimolanti da un punto di vista sensoriale possono essere importanti a non sovraccaricare dei sensi particolarmente attivi, ma mi sento di suggerire principalmente due cose. La prima è di parlare con la singola persona, cercare un confronto su certi argomenti non dando per scontati dei bisogni che potrebbe non avere, chiedere se ha necessità particolari. La reciprocità è fondamentale nel processo inclusivo, altrimenti rischia di essere un atto paternalistico. Bisogna imparare a conoscere le caratteristiche della persona, il suo modo di interagire e cercare di trovare un terreno comune su cui stabilire una comunicazione e un’interazione basata sul mutuo rispetto. 

La seconda cosa è che, per riuscirci, è fondamentale pensare che differente non significa affatto difettoso e che solo guardando alle caratteristiche di ciascuna persona con rispetto, solo mettendoci tutte e tutti sullo stesso piano, possiamo creare un ambiente lavorativo plurale, produttivo e competitivo di cui ciascun individuo si senta realmente parte. 

 

 


Il contributo di Fabrizio è stato prezioso per il successo del nostro progetto con Specialisterne. Condividiamo di seguito i suoi riferimenti.  

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